La cucina italiana non esiste?
“La cucina italiana non esiste” affermano Alberto Grandi e Daniele Soffiati in un libro da poco uscito, proponendo una ricostruzione particolare della storia della nostra tradizione alimentare, che mette in discussione una delle poche certezze del nostro Paese.
La tesi degli autori sul “mito” della cucina italiana poggia su un assunto storico/antropologico: la miseria che ha accompagnato per molti secoli il nostro Paese ha costretto molta parte della popolazione italiana alla malnutrizione o comunque a un’alimentazione monotona e di bassa qualità, che pertanto non può certo costituire “la radice popolare” della variegata tradizione alimentare di cui andiamo fieri. Piuttosto, sono state le rimesse dei tanti emigrati del ‘900 e il benessere generato dal boom economico ad aver avviato un processo di crescita che ha interessato anche la cucina italiana, smontando l’assunto che le ricette di oggi nascano dalla storia e dalle tradizioni contadine del nostro Paese, con le stratificazioni e le contaminazioni di culture diverse che il Paese ha subito nei secoli. Se a questo si aggiunge che mediamente, secondo una ricerca americana, il 69% dei prodotti consumati nel mondo viene importato da un altro Paese, e l’Italia non fa eccezione, con gli ingredienti storici della sua cucina, come la pasta, il riso, l’olio o il pomodoro, di antica origine straniera, la conclusione sembra evidente: il premio per la cucina italiana lo vince la globalizzazione.
Se il ragionamento si fermasse qui, sarebbe un po’ sconfortante anche per FIPE, che ha recentemente riproposto la seconda edizione della “Giornata della Ristorazione Italiana”, impegnandosi a celebrare i valori, la qualità e l’identità di questa ricchissima tradizione alimentare, ma anche sociale. Infatti, la cucina del nostro Paese continua a essere un forte elemento di identità, nonostante l’esplosione del “pluralismo alimentare”, influenzato anche dai processi demografici, dalle mode, dalle migrazioni e dalla pubblicità, che hanno certamente cambiato menu, abitudini e comportamenti alimentari.
Il “pluralismo alimentare”, però, non è tanto la convivenza di diversi stili o ricette gastronomiche, quanto piuttosto il differente modo di intendere e vivere il cibo, con i suoi valori e simbolismi, sui quali l’Italia ha costruito la sua forte identità e la sua attrattività, diventando un radicato e riconosciuto riferimento valoriale. Il mondo oggi mangia e vuole mangiare italiano e questo accreditamento è cresciuto grazie alla capacità del Paese di diffondere la cultura del cibo ben oltre le possibilità economiche della sua popolazione, trasformando e usando le sofferenze alimentari, in insegnamenti, per minimizzare sprechi e valorizzare il sistema dell’ospitalità, partendo dai grandi doni della sua morfologia, trovando nella ristorazione un formidabile strumento di promozione, di educazione e di visione. La cucina italiana non è fatta di “purismo” nelle ricette (anche se talvolta si litiga sul lardo o sulla panna), ma di un’idea di vita dove il cibo è elemento di socialità, appartenenza e differenziazione. “Pathémata, mathémata”, tradotto le sofferenze sono insegnamenti.
Ecco alla cucina italiana va riconosciuto il merito di aver saputo tesaurizzare esperienze ed estrarre il meglio anche nelle situazioni di povertà a cui fanno riferimento i citati autori, dove le necessità hanno alimentato la fantasia e favorito la valorizzazione di ogni dettaglio, per recuperare valori nutrizionali e sapori, investendo sulla sacralità della tavola, centro dei valori della condivisione, convivialità e comunità, fattore di crescita economica, sociale e culturale, di cui essere,
invece, ancora orgogliosi. Valori che spiegano e sostengono la sua giusta candidatura a Patrimonio dell’umanità sotto l’egida Unesco.