ASSEMBLEA 2023 – La ristorazione nella comunicazione
Valori, pregiudizi e strumentalizzazioni
Roma, 15 novembre 2023 – Sede di Confcommercio Imprese per l’Italia
In apertura di un’Assemblea che ha scelto come tema quello impegnativo, e molto scivoloso, della comunicazione, ritengo doveroso, e non per forma, rivolgere pubblicamente un pensiero di vicinanza e di solidarietà alla Toscana.
Abbiamo tutti visto le immagini delle esondazioni, del fango e delle vite stravolte (in alcuni terribili casi, purtroppo, letteralmente travolte) dal maltempo in poche ore.
La reazione di cittadini, autorità, unità di soccorso e del sistema associativo è stata encomiabile. Ancora una volta le comunità hanno dato prova di forte coesione.
C’è bisogno, tuttavia, di aiuti per uscire al più presto dall’emergenza, ma soprattutto è evidente la necessità di una strategia di manutenzione del territorio non più rinviabile, perché questi eventi non sono più eccezionali.
Dietro questa espressione pubblica di profondo e sincero dispiacere, c’è anche l’impegno della nostra Federazione -e della stessa Confcommercio- per aiutare concretamente i territori colpiti, a partire da quegli imprenditori che hanno perso, oltre ai beni più strettamente personali, anche l’azienda, replicando peraltro quanto già fatto in occasione delle analoghe calamità in Emilia Romagna.
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Questa Assemblea è dedicata al rapporto tra Comunicazione e Ristorazione, provando a dare forma e sostanza alla connessione tra i due termini, partendo da una considerazione fattuale: è difficile trovare un settore più “comunicato” del nostro.
I quotidiani più importanti hanno inserti e rubriche dedicate all’enogastronomia, con particolare enfasi proprio sulla ristorazione, organizzano veri e propri eventi di approfondimento dei temi di interesse del comparto. Lestesse televisioni hanno numerose trasmissioni dedicate alla ristorazione e non si contano i canali tematici, le case editrici, le guide e le riviste specializzate.
Questi prodotti di “comunicazione” muovono persone, interessi, filiere, pubblicità, alimentando una rilevante catena del valore.
Basti pensare, per stare quasi “in tempo reale”, all’attenzione mediatica dedicata alla presentazione della Guida Michelin, avvenuta ieri, alla guida delle (1.752) “Osterie d’Italia” recensita da “Slow Food”, del Gambero Rosso e tante altre simili pubblicazioni.
L’autunno è, infatti, tradizionalmente la stagione dell’uscita delle guide gastronomiche, attese dai lettori e dai ristoratori, nonostante avanzi sempre più il fenomeno delle recensioni on-line o il ruolo degli influencer.
Le guide hanno fatto bene al settore, anche se talvolta i giudizi sono discutibili, perché nel complesso lo hanno valorizzato e stimolato a crescere; hanno individuato i top players sui quali hanno costruito il campionato delle eccellenze, accendendo sana competizione; hanno promosso e premiato la crescita qualitativa della ristorazione italiana; hanno offerto ai lettori anche un facile strumento di orientamento e spesso anche spostato gli equilibri della Ristorazione, oltre che i flussi turistici di qualche città.
Da tempo sono state affiancate dalle guide on-line, affidate al vasto pubblico dei navigatori del web.
È un processo che ha causato non poche criticità, con la difficoltà a verificare pareri, recensioni e giudizi, ma è indubbio che il digitale è un piano al quale nessuno può oggi pensare di sottrarsi.
I social network in particolare vanno, però, seguiti, interpretati e curati per evitarne abusi, storture e manipolazioni.
Per quanto ci riguarda, infatti, c’è il rischio di recensioni fasulle e di commenti su commissione, che alimentano un mercato delle recensioni che sta danneggiando i ristoratori e confondendo i consumatori.
Proprio i consumatori sono diventati -nell’epoca dei social network- tra i protagonisti principali della “ristorazione nella comunicazione”, essendo “il cibo” e l’esperienza della ristorazione tra gli oggetti più gettonati di foto, commenti, racconti.
Tale popolarità è normale in un Paese dove il cibo non è mai semplicemente consumo, ma è sempre stato al centro della convivialità e delle ricorrenze delle persone.
L’Italia è l’unico Paese al mondo dove si parla di cibo, di cosa o dove mangiare, anche quando si è seduti a tavola.
C’è però anche il rovescio della medaglia. Spesso, infatti, lo storytelling sulla ristorazione si ferma solo al primo livello di spettacolarizzazione, accendendo i riflettori sulla parte più “narcisistica” di imprenditori e consumatori o facendo prevalere gli aspetti sensazionalistici sul merito, con una distorsione della realtà, che offusca l’impegno, il sacrificio e i valori di un settore complesso e articolato, che sulla reputazione costruisce la propria esistenza.
A questo si aggiunga un’altra osservazione: di ristorazione, cibo e premi, si parla moltissimo, ma è parimenti molto difficile che si parli seriamente del ruolo economico, della funzione sociale e della ricchezza imprenditoriale del settore, sottolineandone i valori sociali, culturali, identitari, i posti di lavoro creati, i livelli di servizio assicurati, il valore economico generato.
Il settore, insomma, sconta da sempre (e speriamo non per sempre), di un difetto di inquadratura da parte dei media e della stessa opinione pubblica, che tendono a mettere a fuoco solo alcuni aspetti, ma non quelli decisivi, con pesanti ripercussioni in termini di attenzione politica sui provvedimenti di cui ci sarebbe bisogno.
Non a caso, il settore ha collezionato nel tempo una lista di bizzarre proposte normative avverse, spesso molto creative e diverse tra loro, che tuttavia hanno in genere un filo rosso che le accomuna: svilire la professione e la professionalità (ma anche le stesse regole imposte al settore), permettendo a tutti di improvvisarsi ristoratori, però con meno vincoli, controlli o fiscalità agevolata.
Non è la chiusura del mercato alla concorrenza, anche se negli agglomerati urbani ad alta densità di locali, un ragionamento sulla programmazione qualitativa delle nuove aperture andrebbe fatto, per evitare la pressione socio-ambientale su alcune zone, lasciandone magari altre mal servire o degradate.
E’ piuttosto un’esigenza di rispetto, non solo verso un settore, ma anche nei confronti delle nostre città e degli stessi consumatori.
Di questo, tuttavia, poco si discute, mentre ci si perde spesso in polemiche che non portano lontano. Basti in tal senso fare riferimento a due esempi tra loro agli opposti, che ben inquadrano l’ambiguità, ma anche la confusione, che esiste nel giudicare una categoria.
Da una parte, tutti ricordano le polemiche estive sui cosiddetti “scontrini gonfiati”, con le presunte furberie di alcuni nostri operatori che hanno applicato maggiorazioni rispetto al prezzo base di alcuni prodotti somministrati, scatenando così un uragano di diffamazione, con la ripetuta ripresa di questi episodi, diventati simbolodella sciatteria, del pressapochismo o dell’egoismo che danneggiano l’immagine del Paese.
Dall’altra parte, invece, in una recente intervista il bravo attore Pierfrancesco Favino, invitato a commentare la sua interpretazione del “Comandante” Todaro, militare generoso che con il suo sommergibile affondava navi nemiche, salvo poi recuperare e salvare i naufraghi, osserva che questo comportamento rientra pienamente nello spirito degli “italiani”, “popolo aperto e accogliente che mette al primo posto la vita umana”.
E Favino aggiunge in conclusione: “mentre i politici parlavano di blocco navale, i ristoratori di Lampedusa cucinavano per sfamare i profughi”, fornendo un assist alla nostra categoria, riconosciuta nel suo valore sociale e tradizionalmente solidale.
Proprio il riconoscimento che viene da un mondo così diverso dal nostro deve, però, essere interpretato anche come uno stimolo a giocare meglio nel nostro campo, rafforzando la nostra comunicazione per raccontarci meglio: non meglio di quello che siamo, ma dando miglior luce a quello che già facciamo.
Ciò precisato, rimane il dubbio, però, di dove si collochi la verità tra il “Toastgate” e il forte valore sociale e umanitario richiamato da Favino.
E’ evidente che chi lavora nella comunicazione ha precise responsabilità, perché se il suo ruolo principale è quello di informare, comprendendo i fatti, è chiaro, però, che per orientarsi su notizie spesso incomplete, c’è bisogno di capacità di selezione, oggettività e professionalità, per estrarre le verità e le priorità.
La rivoluzione digitale ha profondamente cambiato non solo gli strumenti, ma anche il contesto: è mutata la struttura dei partiti, è aumentata la concorrenza tra lobby, sono intervenuti nuovi soggetti che “governano” le informazioni, tra i quali le piattaforme delle recensioni on-line, croce e delizia di molti nostri operatori.
“Non comunicare”, però, non è più un’opzione possibile, laddove anche i silenzi sono una scelta e i vuoti rischiano di essere colmati da strumenti di comunicazione che danno spazio a tutti e a tutto, fake-news comprese.
Ciononostante, le parole continuano non solo a raccontare la realtà, ma contribuiscono a definirla, a formarla e, a maggior ragione, quindi, dovrebbero essere sempre curate, perché la deriva che avvelena il linguaggio è una devastante malattia sociale.
In un’epoca di parole irresponsabili, gettate al vento per ignoranza, sciatteria o demagogia, c’è bisogno di recuperare la responsabilità della parola, per difendere le barriere e i valori di una civiltà in crisi.
“Custodire le parole perché i semi delle parole possono far germogliare i sogni del mondo”, è stata la raccomandazione che ci ha trasferito Padre Francesco Occhetta in una recente occasione associativa a proposito di “Comunicazione e Rappresentanza”.
Con questa idea della parola come responsabilità, abbiamo allora scelto come Federazione di tenere un profilo discreto sulla vicenda degli “scontrini gonfiati”, non entrando nella polemica.
La scelta non era dettata né da imbarazzo né da disinteresse, ma da una consapevole strategia: non amplificare episodi che non rappresentano e tantomeno caratterizzano la stragrande maggioranza dei Pubblici Esercizi italiani.
Si è trattato di una scelta che alcuni possono non aver condiviso. Tuttavia, quantomeno al nostro interno, riteniamo utile, anzi: essenziale, interrogarsi sugli episodi -e le reazioni scatenate- perché includono anche una nostra disarmante propensione all’autolesionismo e soprattutto dimostrano che abbiamo scarsa comprensione dei meccanismi che la comunicazione è oggi in grado di attivare.
Da una parte, infatti, c’è un problema di comunicazione e relazione con il cliente, che non si risolve nella pur dovuta trasparenza dei listini con l’indicazione delle maggiorazioni richieste. Dall’altra, è necessario uscire dalla logica del “ritocchino” ai listini e far passare il concetto che i prezzi si possono e devono anche ripensare davanti ad una contrazione dei margini che mette a rischio la continuità aziendale e la necessità di fare qualità e innovazione.
A complicare la vicenda si aggiunga il fatto che bar e ristoranti si chiamano “pubblici esercizi” e nel nome c’è più di una professione, c’è una missione: quella del servizio come vocazione.
Questo non significa certo che il servizio non vada remunerato, ma quando si dà un prezzo a quella che il cliente reputa una “cortesia” non si fa onore alla categoria.
D’altro canto, però, il livello di indignazione di chi ha riportato o commentato le notizie, evidenzia un italianissimo e peculiare pregiudizio.
Tutti sanno, infatti, che se si chiede qualcosa in più, normalmente si paga anche qualcosa in più, in ogni attività.
Tuttavia, questo basilare concetto economico sembra non valere per i Pubblici Esercizi, per i quali prezzo e valore non devono, non si sa come, andare di pari passo.
C’è infatti la strana pretesa per la quale nei nostri bar e ristoranti ogni servizio aggiuntivo deve essere inteso come cortesia, senza rendersi conto che quella cortesia ha comunque un costo aggiuntivo per l’Esercente.
Le segnalazioni non hanno riguardato solo gli addebiti extra, ma anche i prezzi in alcune rinomate località o il confronto tra i costi dei servizi della balneazione nel nostro Paese.
Così, ci siamo visti confrontare strumentalmente i prezzi di Portofino con quelli praticati dai concorrenti stranieri, per piangere poi la conseguente migrazione di molti turisti italiani verso quelle destinazioni, favorendo paradossalmente la concorrenza straniera.
Se il mondo, però, è ancora innamorato del nostro Paese -e i confortanti dati sul Turismo internazionale lo testimoniano-, qualche merito va dato anche alle oltre 300 mila imprese di Pubblico Esercizio -e al loro milione di collaboratori- che accolgono con professionalità, rispetto e gentilezza i turisti stranieri e che, grazie anche a loro, vi ritornano tantissimi e felici ogni anno.
Il nostro è un settore interconnesso con la società, che si confronta con la quotidianità delle persone, alle quali offre un servizio che ha contropartite economiche, ma che produce anche valori che migliorano la qualità della vita delle nostre comunità.
I Pubblici Esercizi sono veri e propri presidi sociali, che hanno un impatto sul decoro, sulla sicurezza e sulla vivibilità delle città, favorendone la coesione sociale.
Proprio qui si arriva ad un altro tema tipico del nostro mondo, dove l’impatto della comunicazione ha conseguenze pesantissime sul percepito dei cittadini, sulle scelte della politica e quindi sul lavoro degli esercenti.
Mi riferisco al tema “caldo“ della mala-Movida, che preoccupa le Amministrazioni Comunali di tutte le città d’Italia, ma nondimeno impensierisce anche la nostra Federazione, non solo per le implicazioni materiali che il fenomeno ha sull’operatività delle sue imprese, ma anche per ragioni di ordine civico e sociale per le quali ci sentiamo profondamente coinvolti.
Gli stessi locali da ballo e le discoteche hanno su questo tema precise responsabilità e un ruolo decisivo, non tanto come oggetto del problema, ma quale parte integrante della soluzione, per promuovere un divertimento sano e controllato.
La colpa della degenerazione del fenomeno della Movida, con il conseguente conflittuale rapporto tra residenti ed esercenti, è attribuita quasi esclusivamente ai Pubblici Esercizi, coni loro dehors considerati un aggravante e non, invece, utili presidi di sicurezza.
Con onestà intellettuale ci prendiamo le nostre responsabilità. Va tuttavia rilevata la scarsa volontà, in primo luogo proprio da parte di chi fa informazione, di approfondire le tante concause che portano agli eccessi e alle devianze oggetto di cronaca, spesso anche nera.
Il fenomeno ha innanzitutto nell’abuso di alcol la sua causa principale, come ha confermato un’autorevole recente analisi del CENSIS, da contrastare, però, non con ordinanze di divieto o limitazione della somministrazione di alcol, ma avviando un percorso anche di maggior conoscenza di un problema complesso, sul quale intervengono aspetti commerciali, urbanistico-amministrativi, sociali, di ordine pubblico, che sarebbero da affrontare con un approccio ampio e condiviso, per arginare le criticità e costruire soluzioni di lungo periodo.
Su questo fenomeno, che spesso è la spia di un profondo disagio sociale, in particolare dei più giovani, la Federazione ha avviato e diffuso con l’ANM -Associazione Nazionale Magistrati- l’iniziativa “BeviResponsabilmente”, raccogliendo le responsabilità e dando testimonianza del proprio impegno civico.
E’ necessario sul consumo di alcol il coinvolgimento di scuole, famiglie, media, istituzioni pubbliche e degli operatori commerciali, che porti ad investire sulla educazione e sulla sensibilizzazione sui rischi, sulla responsabilità e l’etica d’impresa, sulla prevenzione e controllo del territorio, oltre che sullo sviluppo ordinato e pianificato delle attività commerciali.
I Pubblici Esercizi considerano le città il luogo dove esprimere non solo la loro identità economica, ma anche la loro funzione sociale, spesso non correttamente interpretata e valutata quando si affrontano i temi delle città.
“Non c’è valore del successo economico se non c’è anche l’impegno al progresso sociale”, ha detto il Presidente della Repubblica, intervenendo alla cerimonia di insediamento dei nuovi Cavalieri del Lavoro. Difficilmente si potrebbero trovare parole migliori per dirlo.
A proposito di Lavoro, proprio questo tema è stato oggetto negli ultimi mesi di grande rilevanza mediatica: dalle inefficienze del mercato del lavoro, alle difficoltà ad accompagnare la stagione dei rinnovi contrattuali, alle discussioni sul “salario minimo” o le recenti polemiche sui tempi e le modalità degli scioperi generali.
Partiamo ancora una volta dai fatti. Fipe-Confcommercio firma, insieme alle principali organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori, il terzo contratto nazionale di lavoro per numero di aziende e lavoratori a cui viene applicato.
Eppure, nell’immaginario collettivo resiste la rappresentazione di un settore con sacche predominanti di lavoro nero e un capitale umano sottopagato, senza diritti e senza prospettive.
Questa percezione è prima di tutto un pregiudizio sulla professionalità degli imprenditori del settore: svalutare l’importanza del capitale umano nelle proprie aziende significa oggi non saper fare l’imprenditore, dal momento che questo è uno dei fattori strategici di ogni impresa, tanto più quando si parla di imprese che presuppongono un contatto con il pubblico.
Dipingere poi le mansioni nella ristorazione come “lavoretti” trascura l’amplissima possibilità di mestieri e professioni (dalla cucina ai manager) tra le più interessanti sul mercato e tace un aspetto sociale e morale molto rilevante.
Proprio riguardo alle mansioni considerate meno qualificate, va ricordato che grazie a questi “lavoretti” molti giovani hanno potuto finanziare i propri studi e abilitare la propria vita, dando valore ai rapporti umani, comprese le gerarchie, al tempo, al denaro stesso o hanno iniziato splendide storie imprenditoriali.
La nostra Società, invece, non considera nella giusta importanza questi decisivi passaggi della vita dei giovani, che costituiscono un importante momento formativo -professionale e umano-, perché grazie al bisogno, ai sacrifici e alle quotidiane soddisfazioni che ogni inizio offre, si fertilizzano intuizioni, competenze, visioni e ambizioni, che servono poi a diventare cittadini e professionisti.
Fatte salve le immancabili eccezioni negative, partire dal basso, senza sentirsi in basso, è la chiave di una vita foriera di soddisfazioni. Non dimentichiamo poi che il nostro è anche uno dei primi settori scelto dai giovani quando si vogliono mettere in proprio.
Queste opportunità vengono spesso nascoste dal fenomeno mediatico della spettacolarizzazione della cucina, con l’eccesso di esposizione delle grandi firme del settore, da alcuni considerato un male, perché proietta una immagine sbagliata della professione, da altri, invece, giudicato positivamente, per l’indotto che genera a favore di tutta la filiera agroalimentare del Paese.
Noi riteniamo che questo movimento stia accrescendo valore e immagine alla Ristorazione, migliorandone reputazione e forza attrattiva, anche se induce un maggiore orientamento a favore dei corsi di cucina nelle scuole professionali, a scapito delle altre mansioni, il servizio di sala principalmente.
Il fenomeno mediatico, parallelamente, fa emergere una nuova concezione del cibo, che non è più solo la risposta ad un bisogno fisiologico (nutrizione), ma offre anche divertimento e benessere, anche solo spirituale.
In tutto questo, c’è certamente il rischio di sovraesposizione, con il pericolo di disaffezione e disinteresse verso il comparto (con un effetto “nausea” come sta capitando con l’eccesso di calcio in TV).
Tuttavia, la tendenza può favorire nuova cultura verso il cibo, anche in termini di educazione, preparazione e formazione di un consumatore migliore.
Lungimirante, peraltro, la scelta di allargare la platea ai bambini, che in questo modo coltivano una passione che nasce in casa, vicino ai genitori, condividendo esperienze di vita quotidiana, sulle quali rafforzare i caratteri e i valori sani della famiglia, partendo dal rispetto del cibo, a cui sono collegati i concetti di lavoro, di sacrificio, di festa, dello stare insieme, dai quali poi derivano tanti altri valori sociali, anche le attenzioni agli sprechi.
Da ben prima che arrivasse la TV a sottolinearlo, nelle tradizioni gastronomiche si legge il DNA di un popolo: è cultura stratificata nei secoli, che ha individuato e generato ingredienti, piatti o ricette, che esprimono temperamenti, inclinazioni, contaminazioni sociali ed etniche.
Il legame tra cibo e storia, e quindi con la cultura di un popolo, è un fatto universale, ancestrale e anche elementare, che racconta anche una storia collettiva da comunicare con grande attenzione e rispetto anche verso chi lavora per preservare, tutelare e promuovere questi valori identitari.
Ecco perché in piena emergenza Covid, davanti all’etichetta ufficiale di “attività non essenziali” (e ufficiosa di attività pericolose) associata ai Pubblici Esercizi, abbiamo sentito la necessità di sottolineare e ripercorrere questo essenziale legame tra cibo, socialità e valore antropologico della ristorazione.
In quel momento difficile, abbiamo elaborato con Davide Rampello la “Carta dei Valori della Ristorazione Italiana”: Economia, Comunità, Cura e Cultura, Memoria, Ambiente.
Lo scorso 28 aprile, poi, per la prima volta, abbiamo associato alla Carta dei Valori una celebrazione collettiva con “La Giornata della Ristorazione per la cultura dell’ospitalità italiana”, iniziativa che ha avuto la Medaglia del Presidente della Repubblica e il Patrocinio di quattro Ministeri -quelli delle Imprese e del Made in Italy, dell’Agricoltura e Sovranità alimentare, degli Esteri e del Turismo.
Questa iniziativa fa parte di una allargata e nuova strategia di comunicazione della Federazione, che vede anche un rafforzamento della sua presenza digitale, che prova così a superare pregiudizi e impedire strumentalizzazioni, dando contestualmente sia gli strumenti agli operatori per raccontarsi, esprimersi e valorizzarsi al meglio, che voce ad un settore tradizionale ma in forte cambiamento, facendo emergere il valore imprenditoriale e i benefici che trasferisce al Paese.
Infatti, proprio i Pubblici Esercizi, che fanno della convivialità il loro business, hanno un portato di socialità e una potenzialità di presidio del territorio che pochissime altre attività esprimono, luoghi della nostra cultura, simboli del nostro modo di intendere la comunità e la libertà.
Valorizzare e difendere questi presidi della cultura (e della nostra economia) non è solo un interesse economico privato e collettivo, ma anche un atto di civiltà, di resistenza e di coraggio, nei confronti dei quali la (buona) comunicazione può (e forse deve) fare un essenziale servizio.
Grazie per l’attenzione.