Mixer mag. 23 – Nuove generazioni, nuove aspirazioni, nuove occasioni
Nelle scorse settimane su Tik Tok ‒ social network noto per l’ampia popolarità tra le giovanissime generazioni ‒ ha impazzato il trend #quitmyjob, tradotto in italiano: “lascio il mio lavoro” o “mi licenzio”. In pratica, “lasciare il lavoro” diventa motivo d’orgoglio, al punto da condividerlo pubblicamente, come affermazione personale e pericolosa dimostrazione della propria realizzazione.
Ovviamente il sottinteso di questo fenomeno è che il lavoro che si lascia non appartiene realmente, non è allineato con i propri valori e le proprie aspettative e risulta essere una gabbia (più o meno dorata) di occasioni mancate. Si tratta di un cambiamento di prospettiva che, probabilmente in corso da diversi anni, è letteralmente esploso nel post emergenza pandemica.
Il lavoro non è più fonte di soddisfazione anche per le possibilità (economiche e di inserimento sociale) a cui dà accesso, ma diventa in sé un ostacolo quando non si realizza una congruenza tra quotidianità lavorativa e valori personali.
Il fenomeno ha purtroppo registrato derive poco edificanti, animate da motivazioni dettate dalla malavoglia volte ad alimentare pretese irragionevoli verso i datori di lavoro, utilizzando il cambiamento culturale come scusa di scarso impegno nella vita.
Se si cerca tuttavia di guardare al di là dei (seppur fastidiosi) casi pretestuosi, questo diffuso bisogno di riconoscersi nel proprio lavoro è un’esigenza che va presa in considerazione seriamente. In particolare, bisogna farsene carico partendo dal punto di vista di imprenditori di un settore che ha sofferto più di altri in questi anni di una penuria di personale e da una dequalificazione delle competenze disponibili.
Etichettare le istanze delle nuove generazioni come un capriccio rischia non tanto di dare ragione ad un aforisma assegnato alla sapienza cinese che recita che “in tempo di guerra i giovani uccidono i vecchi, mentre in tempo di pace sono i vecchi ad uccidere i giovani”, ma di posticipare ulteriormente quell’esigenza di migliorare attrattività e competitività del settore, che ha disperatamente bisogno di moderno appeal proprio sui giovanissimi e di nuove competenze per interpretare diversi e crescenti ruoli in un mercato in movimento.
Se, come emerge dal Rapporto Ristorazione 2022 di FIPE, conforta che lo scorso anno l’occupazione del settore sia tornata quasi ai livelli del 2019, è difficile non osservare che quasi un’impresa del settore su due ha effettuato almeno una ricerca di personale nel 2022 e due su tre hanno incontrato difficoltà di reperimento (8 su dieci nel caso dei bar).
Questo periodo storico di rottura sarebbe il momento giusto per il settore dei PE di fare quel salto di qualità da tempo auspicato, in tema di innovazione, marketing e gestione, raccogliendo trend, come lavoro da remoto, digitalizzazione, sostenibilità ambientale, che sono fondamentali per i consumatori, ma altrettanto per intercettare le sensibilità dei nuovi lavoratori.
Il mondo della ristorazione certo non sembra toccato dalle recenti polemiche sul divieto in Italia dell’uso di chat GPT (il programma di intelligenza artificiale che consente di creare contenuti di testo evoluti), perché ‒ fortunatamente ‒ mangiare e bere rimane ancora un’esperienza fisica.
Tuttavia, il nostro settore ha bisogno a tutti i costi di un nuovo racconto e di un linguaggio vicino e capace di comunicare con i più giovani, dando loro anche migliori prospettive. Questo racconto non potrà mai venir riprodotto dall’intelligenza artificiale, ma va costruito ogni giorno, quasi artigianalmente, con intelligenza reale dei tanti operatori del settore che oggi più che mai sono chiamati a trasmettere con rinnovata passione la bellezza di questo mestiere tradizionale, in costante cambiamento, così sfidante, così pieno di futuro.
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