Mixer sett. 22 – Il prezzo dell’inflazione, il valore della qualità
Il metro degli italiani sui prezzi dei consumi fuori-casa, ben prima degli indici statistici e delle considerazioni macroeconomiche, è da sempre simbolicamente uno: la tazzina di caffè, in queste settimane sottoposta a un inevitabile e diffuso aumento, giustificato non solo dagli incrementi delle miscele (le quotazioni borsistiche del prodotto crudo arabica e robusta hanno raggiunto livelli record, vicini al raddoppio), ma anche dai maggiorati costi per servizi o affitti.
Non hanno tardato le reazioni delle associazioni dei consumatori, oltre che dell’Antitrust, sempre attenta a prevenire le manipolazioni del Mercato, ma l’adeguamento è oggi questione di salvaguardia, davanti alle variazioni intervenute sulla struttura dei costi di gestione, di una marginalità che nel settore è notoriamente bassa.
Agli esercenti di bar e ristoranti non piace certo rivedere il proprio listino prezzi, rischiando di perdere quote di mercato e di disaffezionare proprio i clienti abituali, soprattutto in un momento dove l’inflazione sta riducendo il reale potere d’acquisto delle famiglie.
In tanti hanno comunque tentato con merito di lavorare sulla marginalità, assorbendo in parte i costi e riducendo di conseguenza la quota di profitto.
Tuttavia, le variazioni di prezzo di materie prime rilevanti per la ristorazione (come caffè, pasta, farina o olio), associate a mancanza/ carenza di alcuni prodotti e all’esplosione dei costi energetici, rischiano di lasciare scarsa scelta ad imprenditori seri che non improvvisano il proprio lavoro, ma tentano di salvaguardare qualità dei propri prodotti e del servizio e longevità della propria attività, a partire dai
posti di lavoro.
Proprio sul tema dell’occupazione, è evidente che in questo contesto non è pensabile aggiungere altri costi alle imprese iniziando una rincorsa salariale sui rinnovi contrattuali in scadenza.
Diverso sarebbe se questo passaggio fosse accompagnato da interventi di riduzione del cuneo fiscale per alleggerire il costo del lavoro, da un rafforzamento degli strumenti di decontribuzionedel welfare settoriale e da una modernizzazione di alcuni istituti normativi per liberare risorse e migliorare la produttività.
Lo sforzo comune dovrebbe essere quello di provare a produrre nuova ricchezza, da distribuire poi sui tre fattori determinanti della produzione: capitale, lavoro e investimenti, così da creare il più possibile equilibrio nel mercato.
Anche perché la nostra certamente è un’inflazione alimentata non tanto dallo squilibrio tra domanda
e offerta, quanto piuttosto dall’aumento delle materie prime e dei costi energetici dovuto alle tensioni internazionali.
Tuttavia, se la storia insegna, la lezione a cui sarebbe utile attingere oggi sembra quella del boom economico, che aveva alimentato un’inflazione da domanda, contrastata con politiche monetarie che avevano portato i tassi di interesse ben oltre la doppia cifra, innescando un circolo vizioso che alimentava altra inflazione.
Tra tutte le conseguenze non volute di scelte volute: gli inevitabili costi crescenti per interessi
sull’ingente debito pubblico, che assorbono risorse per gli investimenti e le riforme.
Le fasi macroeconomiche sono inevitabili, la loro gestione per il miglioramento complessivo dell’economia, del benessere collettivo e della qualità della vita individuale è sempre
una scelta. Così, la schermaglia accesa dalle dichiarazioni di Flavio Briatore tra valore popolare
e remunerazione della qualità di uno dei prodotti più amati (e copiati) della nostra cucina,
la pizza, ha molte ragioni indipendenti dalla promozione di un particolare brand.
È evidente che, se nutrirsi rimarrà sempre un bisogno primario, e la socialità tipicamente
collegata ai pubblici esercizi una necessità, una fascia della Ristorazione diventerà sempre di più un lusso o uno status-symbol, da permettersi con lo stesso approccio degli acquisti elitari e soprattutto delle esperienze esclusive.
È in atto una forte polarizzazione del nostro settore, dove agli estremi troviamo, da una
parte, la ristorazione stellata, con una clientela pressoché indifferente rispetto ai prezzi praticati
e altamente sensibile alla qualità e al servizio.
Dall’altra parte, si colloca la ristorazione commerciale, che lavora sulle economie di scala rese
possibili dai volumi, permettendosi prezzi bassi e una qualità affidata all’innovazione e a processi
industriali. In mezzo c’è gran parte della ristorazione italiana, un mercato variegato, anche
di qualità, che intercetterà i bisogni intermedi, in fortissima evoluzione per i cambiamenti demografici,
climatici e tecnologici, accelerati dagli ultimi anni e dalle inattese crisi, e condizionata
da nuovi stili e modelli di consumo e di vita e le trasformazioni delle città.
Soprattutto per questo tessuto imprenditoriale, allora, è fondamentale collegare prezzo
a valore se non vogliamo pagare un costo molto più alto al futuro della nostra economia.
Lino Enrico Stoppani
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