Mixer lug./ago. 22 I ‘buoni’ non più buoni
La ‘nuova normalità’, che si sta costruendo intorno alla convivenza con nuove crisi che non lasciano spazio alla tranquillità, vede tornare al pettine vecchi problemi irrisolti del settore, che, se ‘prima’ erano importanti, oggi si rivelano urgenti.
Tra questi, l’annoso problema dei buoni pasto, degradati da virtuoso strumento di welfare integrativo ad un maldestro oggetto per scaricare altri costi sui Pubblici Esercizi.
Il recente fallimento di Quì Ticket, Società emettitrice di Buoni Pasto, con debiti ammessi al passivo per circa 400 milioni di euro nei confronti di 5.000 creditori, per la quasi totalità operatori che ieri hanno assicurato il servizio e che domani si troveranno rimborsati, ben che vada, per il 15%, pone anche un problema di etica e di azione di prevenzione, che uno Stato serio dovrebbe saper assumere e gestire.
Da tempo Fipe (in coalizione con le principali Organizzazioni che rappresentano la quasi totalità dei Pubblici Esercizi e della distribuzione commerciale italiana che accetta i buoni pasto) ha segnalato ai Ministri competenti e a Consip la deriva dell’attuale meccanismo di gare pubbliche, chiedendo di introdurre urgentemente i correttivi necessari per garantire un’equilibrata distribuzione degli oneri del servizio. Il paradosso, infatti, è che oggi la totalità dei costi del meccanismo dei buoni pasto sono scaricati sull’ultimo anello della filiera e, cioè, a carico dei Pubblici Esercizi e della rete della distribuzione commerciale. Siamo l’unico Paese in Europa dove la (insostenibile) commissione per un servizio viene pagata non da chi richiede il servizio, ma da chi lo rende, con un’escalation che sta mettendo in
pericolo le prospettive del servizio stesso.
E non è solo un problema di chi paga per i buoni pasto, ma anche un tema di quanto paga. Come noto, infatti, le commissioni che derivano dalle gare della Consip hanno da tempo raggiunto livelli prossimi al 20%, un benchmark di riferimento che ha inquinato tutto il mercato dei buoni pasti, imponendo oneri ingiustificati, gravosi e sproporzionati, in un settore che ha delle marginalità risibili e che oggi si trova anche ad affrontare un sostanziale aumento dei costi (dalla bolletta energetica alle materie prime alimentari).
Paradosso dentro il paradosso, tutto questo avviene per ‘mano pubblica’, dato che la Consip è stazione appaltante della Pubblica Amministrazione e quindi dovrebbe – il condizionale è d’obbligo – salvaguardare l’interesse generale nella sua attività.
Puntare invece soltanto a massimizzare il risparmio, trascurando la qualità complessiva al servizio, è ragionamento di brevissimo periodo e nessuna visione generale, perché non esiste un mercato sano dove tre attori su quattro perdono (emettitori, esercenti e utilizzatori finali) e uno solo guadagna (il richiedente il servizio).
È anti-economico, ma anche eticamente sbagliato, che lo Stato si faccia promotore di gare d’appalto con procedure di gara che azzerano le marginalità, dequalificano l’offerta, alimentano scorrette prassi commerciali, introducendo di fatto una tassa occulta sulla Ristorazione, che vale circa 250 milioni anno. Non era cosa né buona né giusta in passato, ma adesso risulta veramente spiacevole in faccia ad un settore, quello dei PE, che ha pagato un prezzo altissimo nell’emergenza Covid-19, assicurando nondimeno una rete di servizio e socialità per cui andrebbero premiati e non penalizzati.
Insistere con meccanismi di gara che non preservino lungo tutta la filiera il valore nominale del buono pasto è un segnale sconfortante per il comparto e rischia di decretare il tramonto de facto di uno strumento che ha perso tutta la sua iniziale utilità. Infatti, l’attuale insostenibilità economica sta portando inevitabilmente al rifiuto dei Buoni Pasto in molti Esercizi.
L’adesione alla rete di esercizi convenzionati è certo volontaria, ma molti Pubblici Esercizi hanno aderito, non solo per dipendenza economica collegata al fatturato indotto dai buoni pasto, ma anche per senso di responsabilità, per offrire, cioè, un servizio ai clienti, pur in perdita. C’è però un limite di tolleranza a cui il sistema è già pericolosamente vicino, l’esito è la fine della spendibilità dei buoni pasto.
Se così fosse, sarebbe un peccato non solo per gli esercenti, che perderebbero un mercato che oggi vale circa 3,2 miliardi di euro, ma anche per le stesse aziende e le Pubbliche Amministrazioni, che saranno costrette a ritornare il valore negli stipendi o a ripristinare il servizio mensa tradizionale, sostenendo i costi e gli oneri propri di questa attività (spazi da dedicare, utenze da riattivare, merce da gestire, rifiuti da smaltire, personale da organizzare, etc.).
Tra pochissimo si terrà la gara Consip ‘BP10’, che vale da sola circa 1,25 miliardi di euro, che, se confermasse i livelli di sconto raggiunti nelle precedenti gare (19,80% in gara 9 e 16,78% in gara 8), decreterebbe l’atto conclusivo di una vicenda che era partita con le migliori intenzioni e finisce in un gioco dove tutti gli attori in campo finiranno per perdere. Ecco perché questa riflessione non vuole essere una lamentela, ma l’ennesimo tentativo di ripristino del valore dei buoni pasto, che FIPE sta incessantemente portando avanti su ogni tavolo, per ripensare un sistema che per essere ‘buono’ deve di parecchio essere, subito, migliorato.
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